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3 capolavori della letteratura che o non capito o proprio non mi sono piaciuti, tanto da rivelarsi i miei “flop” del 2021
I miei flop
Le prefazioni alle liste sono sempre estremamente importanti per comprenderne ratio e scopo, tanto più in una del genere, nella quale, a differenza del solito, non vado a vedere testi che ho amato, ma con i quali mi sono trovato in difficoltà. La prima precisazione è che qui non vi parlerò di “libri brutti” ma di opere che, molto più semplicemente, non ho capito. Tutti gli scritti che qui vedrete non sono infatti testi che ho “schifato” e/o che ho abbandonato a metà, ma libri che, ho letto e terminato nella speranza di inserirli su Medio Oriente e Dintorni, ma che per tutta una serie di motivi difficilmente vedrete comparire sul sito salvo nuovo ordine e/o collaborazione.

Altra nota molto importante è che tutti questi testi sono considerati dei veri e propri capolavori nelle rispettive letterature e che quindi solo e soltanto per mio gusto e scarsa comprensione sono collocati qui e non nel luogo che gli spetterebbe di diritto. Infine, come per tutte le precedenti liste, l’ordine non è dettato dalla “bellezza” o “bruttezza” ma solo ed esclusivamente al momento tecnico nel quale ho terminato la lettura. Avete compreso la bellezza ed il significato dietro questi o, ancora meglio, ve ne sono alcuni che ho inserito nelle mie top e non vi sono piaciuti? Fatemelo sapere, sarò lieto di scoprire i vostri gusti e di confrontarmi al meglio con voi. Buona lettura.
“Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad (UK)
Marlowe racconta di aver avuto l’incarico di sostituire un capitano fluviale ucciso dagli indigeni nell’Africa centrale. Si imbarca su una nave francese e, giunto alla stazione della compagnia, vede come gli indigeni muoiano di stenti e di sfruttamento. Dopo un lungo viaggio di duecento miglia sul fiume rintraccia Kurtz, un leggendario agente capace di procurare più avorio di ogni altro. In realtà Kurtz, uomo solo e ormai folle, è quasi morente. Viene convinto a partire, ma muore sul battello che lo trasporta, dopo aver pronunciato un discorso che non può nascondere “la tenebra del suo cuore”.

Leggerlo mi è parso di guardare una di quelle serie americane nel quale compare un “super-cattivo” descritto come il male dell’universo e poi, quando finalmente ti aspetti uno “scontro finale” epico e con molti colpi di scena, si scopre che con una carezza quello è già steso a terra. Il libro è scritto ovviamente molto bene, ma mi fa rabbia che per tutto il romanzo si parli quasi solo di Kurtz e, quando finalmente riusciamo ad incontrare quest’ultimo, si scopre che in realtà non è più una macchina di sangue e male, ma un uomo in fin di vita che fa appena in tempo a salutarci prima di chiudere il testo. È come se Conrad ci facesse provare odori di ogni genere e forma e poi, arrivati a tavola, scoprissimo che il tutto in realtà è una pasta in bianco cotta terminata in fretta e furia. Lo avevo comprato per paragonarlo a “La stagione della migrazione a Nord” di Tayeb Salih ma, a gusto mio, lo scrittore sudanese compone un’opera decisamente più ricca e varia del polacco naturalizzato britannico anche se, naturalmente, è il testo di quest’ultimo ad aver ispirato lo scrittore africano.
“L’epistola del perdono” di Abul-‘ala Al-Marri (Siria)
Scritta nell’XI secolo, L’Epistola del perdono di al-Ma’arri è un testo satirico di prima grandezza, una narrazione vivissima e teatrale. L’aldilà che vi è descritto è popolato di letterati pedanti, ipocriti adulatori, furbetti e furbastri che si aggirano tra angeli inverosimili e vergini a dimensione variabile secondo il desiderio dei beati. La satira di al-Ma’arri si rivolge sia agli uomini, in particolare agli eruditi ambiziosi e ai poeti maldestri, sia più in generale alle rappresentazioni popolari del Paradiso islamico. Poeta coltissimo, uno dei più grandi intellettuali della sua epoca, al-Ma’arri lascia trasparire, sotto l’ironia, una domanda di senso accompagnata da un messaggio teologico dirompente: il perdono divino è più grande di quanto si creda. Per essere ammessi in Paradiso può bastare una buona azione nella vita; per un poeta, un vero buon verso in mezzo a tanti fasulli. Questa prima traduzione italiana fa scoprire un libero pensatore dei suoi tempi, una delle più grandi figure della cultura araba di ogni epoca.

È come quando vieni invitato a cena da gente infinitamente più colta di te ed a metà serata inizi a sentirti come un contadino particolarmente ignorante di qualche paesino sperduto. Il testo è geniale quanto l’autore, ma è oggettivamente quasi impossibile riuscire a cogliere la strabordante quantità di riferimenti specifici all’alta ed antica poesia araba, anche perché il testo, essendo una traduzione senza l’originale a fronte, non può nemmeno riproporre esattamente i versi tanto celebri e declamati, portando il lettore a passar più tempo su Wikipedia o sulle note che sull’Epistola in sé. Grandissima nota di merito va però al mastodontico e meraviglioso lavoro di Martino Diez, che grazie al suo bellissimo saggio introduttivo riesce a trasformare il libro in una sorta di introduzione alla poesia araba ed alla figura di Al-Marri, figura davvero unica ed incredibile della letteratura araba classica. Va detto, che proprio grazie al saggio introduttivo, capiamo che anche per gli arabofoni è un testo davvero estremamente ostico ed in questi casi non si può che dire “mal comune mezzo gaudio”. Se fosse possibile, mi piacerebbe davvero moltissimo fare una diretta proprio con Martino Diez, in modo da scoprire al meglio questo testo ed in generale la poesia araba classica, poco celebrata in Italia rispetto a quella persiana, eppure parte fondante nella cultura araba ancora prima dell’arrivo dell’Islam.
“Ciactrici” di Juan José Saer (Argentina)
Pubblicato per la prima volta nel 1969, “Cicatrici” è un romanzo che Saer scrisse in venti notti, ispirato da un fatto reale. Quattro parti, quattro narratori in prima persona: Ángel, giovane reporter; Sergio, avvocato divorato dal vizio del gioco; Ernesto, giudice misantropo che si ostina nell’ennesima traduzione di Oscar Wilde; Luis Fiore, operaio che commette un omicidio inspiegabile. Quattro vite, ognuna ossessionata da qualcosa, che hanno un unico punto di intersezione: il delitto commesso da Fiore. Saer scrive un romanzo a spirale, per ricreare attraverso la circolarità un’illusione di ordine che nel funzionamento del mondo non esiste, perché nel continuo conflitto tra caos e ordine “non sei tu che vinci, è il caos che accondiscende”.

Non l’ho capito. Il libro è davvero bello e trasportare perfettamente l’autore in quest’atmosfera magica che ricorda molto quella dei noir americani, peccato che, arrivati alla conclusione, l’autore conclude l’opera con una frase che secondo lui dovrebbe essere il collegamento con le quattro storie, peccato che io non abbia minimamente cosa intendesse ed a cosa facesse riferimento. La suddetta frase è “Nam oportet haereses esse”, frase pronunciata da San Paolo nelle sue Lettere ai Corinzi, nella quale de facto afferma che è opportuno vi siano eresie per verificare chi fosse di provata virtù. Sicuramente mi mancherà qualche fondamentale ed imprescindibile riferimento culturale, però fino alla mia conversione all’Islam (a 15 anni) ho frequentato il catechismo ed in generale sono andato quasi sempre a scuola dalle suore, mi fa strano di non aver proprio capito cosa intendesse e, ancor di più, di non esser riuscito a collegarlo al romanzo; sta di fatto che senza la comprensione di tale frase le quattro storie, per quanto belle, risultano quasi slegate e ciò non mi permette di fare un’analisi sensata riguardo l’opera. L’avevo comprato perché nella letteratura argentina Juan José Saer è considerato secondo solo a Jorge Luis Borges ma, a differenza di quest’ultimo, Saer aveva origini siriane.
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