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Abbiamo l’onore di portarvi la nostra intervista a Lorenzo Forlani, giornalista italiano corrispondente da Beirut per svariate testate fra cui Huffington Post, Esquire ed Agi. Da sempre un punto di riferimento per noi, siamo lieti di concludere la settimana libanese con un suo contributo; da non perdere.
K: Abbiamo letto che le proteste sono scoppiate per un tentativo del governo di alzare ulteriormente le tasse, pur avendo il Libano, già adesso, uno dei debiti pubblici più alti al mondo. Come si è arrivati a tale situazione?
L: La tassa su Whatsapp è stata solo la classica goccia che fa traboccare il vaso, in un paese che non può essere definito povero ma che registra disuguaglianze crescenti. Le stesse “tasse”, perlopiù, sono tasse indirette (come quella su Whatsapp, ritirata, o quelle sul tabacco e la benzina, confermate), applicate sui beni di consumo, e quindi per definizione regressive, in grado di danneggiare le fasce della popolazione più deboli. La situazione economica del Libano è preoccupante: oltre al citato debito pubblico (con interessi altissimi), c’è una disoccupazione giovanile al 40%, una forte concentrazione di ricchezza (l’1% detiene il 25% della ricchezza, mentre un libanese ordinario fa i conti con i disagi legati alla mancanza di elettricità 24/24 e di approvvigionamento continuo di acqua, oltre ad una crisi dei rifiuti che ormai dura da 5 anni), e una corruzione dilagante, insita nel sistema confessional-clientelare libanese.
La “goccia” che ha preceduto quella legata alla tassa su Whatsapp è stata la disastrosa gestione degli incendi scoppiati una settimana prima delle proteste nelle foreste del Libano, con gli aerei antincendio fuori uso per mancata manutenzione e l’intervento di paesi stranieri (Giordania, Turchia, anche l’Italia si era offerta di inviare dei Canadair ma poi non c’è stato più bisogno perché ha piovuto) per domarli.
K: Le manifestazioni degli ultimi giorni si stanno rivelando davvero “iconiche” per i mille e vari modi in cui i libanesi stanno protestando, portando in piazza sia le varie fedi sia un’ironia quasi surreale in quel tipo di situazione. A parer tuo, cos’hanno di diverso queste proteste da quelle, ad esempio, viste in Algeria? Quanto sono destinate ad incidere nella storia del paese?

L: La differenza principale sta nell’assetto istituzionale libanese, che formalmente è una democrazia parlamentare “consociativa”, in cui le cariche e i seggi in parlamento sono suddivisi su linee confessionali. Il Libano non è una autocrazia militare come quelle prese di mira durante le primavere arabe, e le proteste non sono legate ai diritti umani e alla libertà di espressione ma a questioni economico sociali, come appunto le disuguaglianze e la corruzione endemica. Quelle libanesi sono proteste laiche, che stanno portando in piazza persone di diverse confessioni, che hanno rotto alcuni tabù legati alla sistematicità del settarismo libanese. L’Algeria è un paese omogeneo dal punto di vista confessionale, mentre il Libano è un vero e proprio mosaico di fedi.
K: In questa settimana ci siamo concentrati sulla composizione etnica e religiosa del Libano, una delle più particolari di tutto il Medio Oriente e l’unica ad incidere anche politicamente nella struttura del paese. A parer tuo, come va ad impattare questo sull’attuale crisi ed in generale nella vita quotidiana?
L: Come detto, queste proteste trasversali – condivise da cristiani, sunniti, sciiti, drusi, tutti uniti da una richiesta di essere trattati come cittadini libanesi, anziché come membri di una comunità – stanno rompendo dei tabù, che in passato vedevano spesso proteste confinate ad una comunità o all’altra, con la conseguenza di frequenti polarizzazioni confessionali. Il Libano di oggi rimane un paese composto da piccoli “feudi”: a parte le grandi città – Beirut mista, Tripoli sunnita, Batroun cristiana, Tiro sciita – i villaggi del nord sono soprattutto sunniti e in parte cristiani, quelli della zona centrale sono cristiani e quelli del sud sono sciiti.
Nello stesso tessuto urbano della capitale, a 30 anni dalla fine della guerra civile, persiste una divisione abbastanza visibile tra quartieri, meno omogenei che in passato dal punto di vista confessionale ma comunque abbastanza “identificabili”. Le proteste odierne superano tutto questo, nelle piazze di Tripoli (sunnita) si sono sentiti cori di solidarietà verso il sud sciita e viceversa, nei villaggi cristiani si è espressa solidarietà nei confronti dei quartieri sciiti del sud di Beirut. Non era mai successo prima.
K: Di recente il Libano è stato scosso anche da una serie di incendi avvenuti proprio poco prima delle proteste; puoi raccontarci qualcosa in più? Che tu sappia, hanno una causa dolosa o causale? Perché?
L: Gli incendi hanno causa dolosa, e poi sono stati alimentati dai venti e dalle temperature. I responsabili tuttavia non sono stati individuati. L’emergenza è stata gestita in modo pessimo, il Libano aveva a disposizione dei Sikorsky antiincendio, che però sono fuori uso perché non vengono manutenuti da anni. Lo Stato centrale è stato colto totalmente impreparato, alla fine ci ha pensato la pioggia a fare il grosso del lavoro, ma i danni sono stati numerosissimi, soprattutto se si considera che siamo alla vigilia dei raccolti di olive. Tanti produttori di olio faranno i conti con mesi molto difficili.
K: Concludiamo parlando della tua esperienza in Libano; cosa ti ha portato a scegliere proprio questo paese? Quanto e perché è diverso (se lo è) vivere a Beirut piuttosto, ad esempio, a Napoli?
L: In realtà è questo paese ad aver “scelto” me. Mi occupo di Medio Oriente da più di dieci anni e volevo trasferirmi nella regione. Ho trovato questa possibilità con AGI, che inizialmente, tre anni fa, mi ha offerto un piccolo budget per trasferirmi in Iran (non arabo), che al tempo era il paese di cui mi occupavo maggiormente. Subentrati alcuni problemi e rallentamenti dovuti al visto di lavoro permanente, AGI ad un certo punto ha virato, proponendomi Beirut. Non ci ho pensato due volte – era la mia seconda scelta dopo Damasco, anche per via dello studio dell’arabo che porto avanti da un po’ – e nel giro di una settimana sono partito.

Per quel che riguarda i paragoni con Napoli, va detto che Beirut è evidentemente una città mediterranea, e i libanesi sono molto simili a chi in Italia nasce da Roma in giù. Sono più i punti di contatto – il mare, la facile confidenza con gli sconosciuti, una parziale decadenza, il caos per le strade, l’inquinamento acustico, la generosità e l’ospitalità delle persone – che le differenze. Talvolta, da romano, mi sento ‘antropologicamente’ più vicino ad un ragazzo di Beirut che a uno di Stoccolma.
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