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Partendo da uno dei brani più celebri dei nostri anni “00, proveremo ancora una volta a parlarvi del Sudan e di uno dei conflitti più atroci degli ultimi anni, da molti ritenuto addirittura genocidio. Un collegamento fra il Darfur di quegli anni e l’attuale situazione politica.
Living Darfur
Una delle cose che preferiamo fare in assoluto è il riscoprire cose che sembravano banali, osservando tutto con uno sguardo nuovo; con questo brano abbiamo l’esempio perfetto. “Living Darfur” è stata una delle canzoni che più ci ha accompagnato come sottofondo, eppure, abbiamo ne abbiamo riscoperto solo di recente il significato. Il pezzo, uscito nel settembre del 2007, riuscì subito a conquistarsi un posto d’onore nelle radio del Bel Paese riuscendo, sopratutto all’estero, nel sensibilizzare l’opinione pubblica sul massacro in Darfur. Erano gli anni “00 e in quel periodo tutta Hollywood si stava sensibilizzando verso tematiche umanitarie; proprio per questo il video venne finanziato da Mick Jagger, ricevendo grandissimi plausi anche da George Clooney, da sempre in prima linea per quell’area.
Il testo è molto più bello di ciò che pensavamo. Parla di rinascita, del provare a vivere nonostante i recenti e drammatici avvenimenti, nonostante tutto e tutti. A dominare il testo sono 3 parole: You shall rise, “devi risorgere”. Una frase chiara e che non ammette alibi, poichè, nonostante tutto, siamo destinati a cercare la vita. Qualsiasi cosa ci possa mai accadere, non potremmo far altro e camminare, abbandonando ancora una volta il male dietro di noi, pronti a ricominciare ancora una volta il continuo viaggio che è la vita.
Cos’è il Darfur?
Quello di cui canta Marlon Roudette è senza alcuna ombra di dubbio uno dei più drammatici conflitti di questo secolo, sia per numero di vite stravolte che per ferocia. Il Darfur è una delle provincie storiche del Sudan e, a partire dalla sua annessione nel 1875, una delle più trascurate dai vari governi a causa della sua peculiarità rispetto al resto del paese. Con il passare del tempo la situazione si è acuita sempre di più, portando ad una divisione sempre più netta fra la parte di popolazione arabizzata e non, la prima delle quali è da sempre favorita dal governo centrale. A ciò si aggiunge poi che i primi sono prettamente seminomadi, mentre gli altri sono dediti sopratutto all’agricoltura. Una situazione pronta ad esplodere.
Dopo decenni di sofferenze e soprusi, agli inizi degli anni “00 iniziano serpeggiare i primi focolari di protesta e il 25 aprile 2003 si ha il punto di non ritorno. Una forza congiunta, formata dal Movimento per la Liberazione del Sudan (SLA) ed il Justice and Equality Movement (JEM), penetra la base militare del governo ad al Fashir, la capitale del Darfur Settentrionale. Il successo porterà grande gioia agli oppressi, ma sarà per loro anche l’inizio dell’inferno.
Janjaweed, demoni a cavallo
Il generale Omar al Bashir, vista la fragilità dell’esercito, sceglierà allora di affidarsi ai Janjaweed, milizie arabe conosciute per la loro ferocia. Il nome in arabo significa “Jinn/demone a cavallo” e ci darà un tragico indizio sull’imminente futuro. Sguinzagliati dal governo, questi gruppi armati compiranno quella che da molti è stata chiamata pulizia etnica, massacrando, stuprando e radendo al suolo qualunque non arabo gli si trovasse davanti. In circa un anno si arrivò a 100’000 profughi in Ciad, luogo nel quale, peraltro, le milizie penetrarono diverse volte, suscitando l’ira del vicino stato.

Ad oggi si stima che i morti siano 400’000 e gli sfollati 2 milioni, perlopiù civili. Tuttavia ad oggi i numeri non sono ancora definitivi in quanto, seppur con diverse tregue, le violenze non si sono mai arrestate del tutto. Per violenza e brutalità, il conflitto in Darfur viene spesso paragonato al Genocidio del Rwanda o alle pulizie etniche in Bosnia.
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