This article is also available in:
English
Il Time ha scelto di dedicare la premiazione ai giornalisti vittime di abusi e censura. Si tratta della prima premiazione postuma nella storia della rivista che ha scelto Jamal Khashoggi come vero e proprio simbolo.
Khashoggi, il simbolo
Questo il messaggio forte che ha voluto lanciare il Time, in un anno in cui il giornalismo è sempre più esposto ad attacchi politici e non. Il caso Khashoggi rappresenta di sicuro uno degli eventi più inquietanti da questo punto di vista.
Per chi non ricordasse la sua storia, il giornalista è scomparso lo scorso 2 ottobre dopo essere entrato nella sua ambasciata ad Istanbul. In brevissimo tempo la polizia turca ha ricostruito il violento omicidio, generando così una crescente indignazione verso il principe saudita bin Salman, probabile committente del tutto. Un vero e proprio omicidio di Stato alla saudita.
Un premio esteso

Il Time ha voluto porre un accento su Khashoggi, primo vincitore postumo, senza però dimenticarsi anche degli altri giornalisti. Il premio va infatti inteso all’intera categoria dei giornalisti, intesi come ultimi e strenui difensori della verità. Non a caso la rivista ha scelto di premiare ben 4 “personalità” al fine di far comprendere meglio il suo messaggio.
Oltre a Khashoggi infatti ci sono: Maria Ressa, giornalista filippina del sito Rappler minacciata dal regime Duterte, la redazione della Capital Gazete di Annapolis negli Usa e i giornalisti Wa Lone e Kyaw Soe Oo di Reuters.
Contro il massacro
Questi ultimi 2 sono stati incarcerati per ben 7 anni per aver violato “segreti di Stato”. A loro infatti si deve la prima unica e ammissione del governo riguardo a violenze sui Rohingya, i musulmani della Birmania. La popolazione dal 1982 non è autorizzata ad ottenere la cittadinanza né a possedere terreni, inoltre sono obbligati a non aver più di due figli e a viaggiare solo sotto permesso ufficiale. Inoltre dal 2014 in Birmania è vietato l’utilizzo della parola Rohingya.

Le violenze nei confronti di questa popolazioni sono sempre esistite ma a partire dal 2017 la situazione è degenerata, portando così il Tribunale Internazionale Permanente dei Popoli ha sentenziare che la crisi in corso dei Rohingya sia da ritenersi inequivocabilmente come genocidio. Il Tribunale ha poi denunciato l’utilizzo del termine pulizia etnica da parte delle Nazioni Unite come “eufemismo” con “nessuna base nel diritto internazionale”. Al momento il genocidio ha causato lo sfollamento di più di 700’000 Rohingya. Lunga vita all’informazione.
Seguiteci sulla nostra pagina facebook, Spotify, YouTube, Twitter e Instagram, oppure sul nostro canale Telegram. Ogni like, condivisione o supporto è ben accetto e ci aiuta a dedicarci sempre di più alla nostra passione: raccontare il Medio Oriente.
Ti seguo con attenzione ed anche oggi, come sempre, un altro articolo molto interessante che serve a tenere desta la coscienza.
Onorato dei complimenti, farò di tutto affinché si possano confermare ogni giorno 😉