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Un romanzo che mischia poesia e prosa, il diario di una vita passata fra Teheran e Parigi raccontando le proprie origini perse e ritrovate. Il romanzo d’esordio di Maryam Madjidi è un affresco originale e ben scritto che vi conquisterà nel profondo.
Io non sono un albero
Iran, fine degli anni ’70. I genitori di Maryam sono giovani, comunisti e innamorati del loro Paese. Ma l’Iran sta sprofondando verso uno dei regimi più oscurantisti dell’epoca moderna, e la famiglia è costretta a fuggire. Quando, a sei anni, Maryam raggiunge il padre in esilio in Francia, ad accoglierla è prima di tutto una nuova lingua, che lei subito rifiuta, per poi invece sceglierla come unico salvagente possibile, al punto da respingere ogni richiamo alle origini: ”Io non sono un albero, non ho radici”.
Solo anni dopo, quando ai genitori ormai stanchi le parole iniziano a mancare, Maryam trova la forza di volgersi indietro, recuperando la lingua come unico strumento per ritrovare la memoria.
Una vita in ricordi
Quello di Maryam Madjidi non è un libro dalla storia lineare, preferisce volare di concetti e di poesia inseguendo l’amato Omar Khayyam. Non aspettatevi quindi una linea del tempo o cose simili, il romanzo è una continua relazione fra l’infanzia della scrittrice e la sua riscoperta dell’identità persiana da adulta. Il risultato però non è confusionario ma riesce ad essere sempre un ritratto dolce e a tratti commuoventi .

Nel libro si respira costantemente la malinconia di chi appunto ha perso le proprie radici, il tutto però non si rivela mai troppo pesante grazie alla bellezza del testo, spesso più simile ad una poesia in prosa, e alla sua originalità.
Fra Parigi e Teheran
Il romanzo è sempre molto intenso e attinge soprattutto all’infanzia della scrittrice, passata fra una Teheran in piena Rivoluzione e la Parigi delle banlieu. La poesia nasce soprattutto dal contrasto che si crea fra l’incontro della nuova cultura/lingua con la vecchia.
“Allora il francese avvolge la bambina con il suo mantello regale di gigli ed élite. Procedono insieme verso un grande edificio di liberté, égalité e fraternité. Frammenti di carta danzano sopra il loro capo: pagelle esemplari, lodi meritate, poesie applaudite turbinano allegramente scortandole.
Il persiano, seduto un po’ distante su una panchina, li guarda allontanarsi. Vecchia pensosa, circondata da una spessa solitudine, con la punta del bastone spazza qualche foglia e cartaccia insieme ai vecchi sogni del passato.”
Per la prima volta poi emerge con chiarezza e in diversi passi del romanzo il lavoro fatto nell’educazione d’oltremanica per “francesizzare” gli stranieri. Un comportamento che a noi turisti spesso suona arrogante ma che può essere distruttivo per chi lì ci vive.
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Grazie per questa segnalazione! prendo nota. Anch’io ho appena iniziato un romanzo di una scrittrice nata in Iran e poi emigrata da piccola con la famiglia in Svezia…
Come si chiama? Mi stai già stuzzicando 😉
“Un popolo di roccia e vento” di Golnaz Hashemzadeh Bonde