Arda Turan e l’orgoglio ritrovato

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10.06.2017

Turchia, un paese duro che ha da sempre sfornato guerrieri testardi e orgogliosi. Uomini generosi e molto attaccati alla famiglia, capaci d’incendiarsi e di perdere ogni ragione se solo si sentono insultati.

Il ragazzo di Bayrampaşa

Arda non è un giocatore come gli altri, non può esserlo. Rappresenta l’essenza della Turchia moderna, nata povera ma ostinata a prendersi il proprio posto nel mondo. Chiunque conosce la sua storia, quella di un ragazzo cresciuto nel quartiere di Bayrampaşa, ad Istanbul, e che ha imparato a giocare in piazza. All’aperto, in mezzo alla gente, cercando il riscatto nella sua passione.

Nel 2000 viene acquistato dalle giovanili del Galatasaray, il suo club, il più titolato di Turchia, da lì sarà un amore incorruttibile e senza fine. Trova Fatih Terim sulla panchina, “l’Imparator” è quello che gli da le basi, che scopre il suo talento sopraffino, già noto però agli uomini del suo quartiere. Sono loro i suoi primi fan, i primi a vedere in lui la trasposizione vivente della nuova Turchia.

Turan
Bayrampasa

L’Ardaturanismo

Tutta la Madrid biancorossa si accorge di lui, di questo giocatore strano. Non va in discoteca per rispetto della sua fede e detta i tempi di tutta la partita, rallenta il ritmo quando gli altri accelerano, accelera quando gli altri rallentano. A Madrid passa la maggior parte del suo tempo in un kebab ad ascoltare musica turca, i suoi amici sono gli studenti turchi venuti in Erasmus a Madrid e chiunque condivida i suoi valori. I colchoneros lo amano, anzi di più: lo venerano.

Nasce l’Ardaturanismo, la prima religione laica di Spagna, con seguaci sparsi in ogni tifoseria e un libro di Juan Rodriguez Garrido che diventerà la loro Bibbia. Il primo seguace di questa filosofia è un argentino, colchonero nel cuore, non pratica questo modus vivendi, ma è abbastanza sveglio per capire che esso si fonde perfettamente con la sua idea di gioco operaio.

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È grazie al Cholo che Arda riesce a portare in giro per il mondo l’Ardaturanismo, permettendo al mondo di conoscere quello che, di fatto, è lo spirito della nuova Turchia. L’anima di un popolo battagliero e lavoratore, ma estremo amante della vita, che nel suo intimo ha capito fin troppo bene che è la semplicità l’unica arma a questa opprimente globalizzazione.

La discesa

C’è un punto, nella storia di questo straordinario giocatore, in cui l’essere un simbolo inizia a diventare qualcosa di pesante, stancante, addirittura fastidioso. La discesa inizia con il cambio di casacca: basta con gli umili colchoneros, si passa al plurititolato blaugrana. Subito si avverte che qualcosa è cambiato, Arda prende ben di più rispetto al passato, è in una squadra che vince tutto, ma ha perso la sua magia caratteristica. Non gioca quasi mai e quando lo fa sembra uno dei tanti, il suo ruolo adesso è quello di un raffinato maggiordomo di Messi e compagni.

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Arda lo sente nel profondo di se, ma non vuole ammetterlo, in qualche modo è convinto di essere arrivato al top nel Barcellona, di aver già completato la sua carriera. Gli manca la lucidità di voler essere Cesare in Gallia e questa sarà la sua rovina. La sua storia è la stessa del suo popolo, quando, dopo la prima guerra mondiale, cancellò la propria identità in favore di un progresso a loro dire impossibile altrimenti. E così si perse l’alfabeto, la propria cultura e le proprie tradizioni in favore di ideali europei tanto diversi da loro.

La speranza

I fatti recenti però ci dimostrano che non tutto è perduto, che l’uomo Arda non è morto del tutto. In fondo il motivo è anche quello da cui quest’articolo è partito: martedì scorso Turan aggredisce un giornalista colpevole di aver messo in cattiva luce la Nazionale. Bilal Mese un anno fa scrisse un articolo sui premi che alcuni giocatori turchi, fra cui Arda, avevano preteso per giocare gli Europei. Cifre astronomiche per risultati imbarazzanti, la Turchia non passa nemmeno i gironi. Qualcosa però si agita nel cuore del turco. Non può accettare che venga messo in dubbio il suo amore per la patria.

Arda Turan

Quando rivede Bilal perde la testa, gli mette le mani addosso e gli urla di tutto e di più, non può sopportare l’umiliazione subita. Terim è costretto a cacciarlo, lui per orgoglio lascia la Turchia, non può sopportare l’affronto. Lui ama la Turchia come nessun altro, il legame che ha con la sua terra e con il suo popolo mette quasi la pelle d’oca. I turchi lo sentono e capiscono anche che la fortuna e la sfortuna dell’intero paese sono rappresentate dal numero 10. Per questo, in silenzio, quasi vergognandosi, si trovano costretti ad esultare: la Turchia non è morta ma anzi, ha ritrovato l’orgoglio.

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